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I criteri distintivi del contratto di affitto d’azienda e del contratto di locazione di immobile

  • albertonegrivr
  • 28 dic 2020
  • Tempo di lettura: 18 min

Aggiornamento: 29 dic 2020

D̳i̳r̳i̳t̳t̳o̳ C̳o̳m̳m̳e̳r̳c̳i̳a̳l̳e̳


di Cosimo Zuccaro – avvocato tributarista

e di Alberto Negri – avvocato civilista


La differenza essenziale tra locazione e affitto di azienda (o di ramo di essa) è in primo luogo nella preesistenza di una organizzazione in forma di azienda dei beni oggetto di contratto, mancando la quale non si può dire che sia stato ceduto il godimento di un’azienda o di un suo ramo; in secondo luogo, ove si accerti che i beni, al momento del contratto, erano organizzati per l’esercizio dell’impresa già dal dante causa occorre verificare se le parti abbiano inteso trasferire o concedere il godimento del complesso organizzato, oppure semplicemente di un bene immobile, rispetto al quale gli altri beni e servizi risultano strumentali al godimento del bene, restando poi libero l’avente causa di organizzare ex novo un’azienda propria. E ciò tenendo conto che un complesso di beni organizzato costituisce azienda se i beni sono tali da poter costituire, attraverso l’organizzazione, di cui si è detto, una azienda vera e propria, ed occorrerà dunque tener conto del fatto che, nella fattispecie, i beni ceduti, insieme al locale, erano costituiti da un massetto, un registratore ed un gabinetto, ossia da cespiti la cui cessione, di per sé, non integra un trasferimento di ramo aziendale.


Premessa: l’intento elusivo di utilizzare lo schema contrattuale dell’affitto d’azienda avente ad oggetto, tra l’altro, beni immobili anziché il contratto di locazione immobiliare.

È sempre di attualità il tema relativo all’interesse che ben possono avere le parti nel qualificare un contratto come affitto di azienda (avente ad oggetto, tra l’altro, i beni immobili) per sfuggire alla disciplina meno favorevole della locazione commerciale. In particolare, per quanto di interesse in questa sede, con riferimento all’imposizione indiretta, in via generale:

- il contratto di affitto di azienda è ordinariamente assoggettato ad IVA[1] e ad imposta di registro in misura fissa nell’ipotesi in cui la ‘concedente’ sia una società di persone commerciale, società di capitali, imprenditore individuale che affitta una fra più aziende;

- il contratto di locazione di fabbricati strumentali, esenti o imponibili ad IVA, sono assoggettati ad imposta di registro nella misura del 1per cento[2].

Tuttavia, con riferimento a tale fattispecie, l’articolo 35, comma 10-quater[3], del decreto legge n. 223 del 2006 introduce una deroga al regime di tassazione previsto per l’affitto di azienda prevedendo che l’importa di registro è dovuta nella misura dell’1 per cento anziché in misura fissa allorquando si verifichino contemporaneamente due condizioni:

a) il valore normale dei beni immobili, come determinato ai sensi dell’art. 14 del d.p.r. n. 133/1972, sia superiore al 50 per cento del valore complessivo dell’azienda oggetto del contratto di affitto[4];

b) l’eventuale applicazione dell’imposta di registro in misura fissa per l’affitto d’azienda consente di conseguire un risparmio di imposta di registro rispetto a quella prevista per le locazioni di fabbricati strumentali (1 per cento).

L’articolo 35, comma 10-quater, del decreto legge n. 223 del 2006 è stato chiaramente introdotto al fine di evitare che le parti attraverso l’utilizzo dello schema contrattuale dell’affitto d’azienda (avente ad oggetto, tra l’altro, gli immobili) disapplichino le disposizioni in materia di locazioni immobiliari. La norma connotata da un chiaro intento antielusivo, comporta che sia posta a confronto la tassazione delle due operazioni: la locazione dell’azienda e la locazione dei fabbricati strumentali, in particolare per quanto riguarda non tanto l’IVA quanto l’imposta di registro. Infatti, come confermato anche nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 12/E del 1° marzo 2007 (posizione successivamente riconfermata nella circolare n. 18/E del 29/5/2013), la ratio antielusiva della norma richiede di individuare il regime di maggior sfavore nell’applicazione dell’imposta proporzionale di registro, prevista per tutte le locazioni di fabbricati strumentali, sia imponibili che esenti, poste in essere ai sensi dell’art. 10, comma 1, n. 8) del d.p.r. n. 633/1972. In sostanza, in presenza di affitto di azienda, qualora il valore dei fabbricati strumentali inclusi nell’affitto sia la parte predominante del valore dell’azienda nel suo complesso (i.e. il valore degli immobili sia superiore al 50 per cento del valore dell’azienda), si applicherà, oltre all’IVA, anche l’imposta di registro in misura proporzionale dell’1 per cento su tutto il corrispettivo pagato per l’affitto di azienda[5].

Fermo restando quanto verrà illustrato nei paragrafi successivi, alla luce di quanto sopra esposto, è evidente che nei contratti di affitto d’azienda aventi ad oggetto, tra l’altro, beni immobili[6] occorrerà ponderare con attenzione l’eventuale inserimento di clausole che possano prevedere l’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa, ritenendo non applicabile le disposizioni dell’articolo 35, comma 10-quater, D.L. n. 223/2006, in quanto è verosimile che tali fattispecie potrebbero essere verificate da parte dell’Amministrazione Finanziaria al fine di riscontrare se effettivamente sia corretto disapplicare detta disposizione (ipotesi evidentemente che ricorrerà solo se verrà dimostrato che il valore normale dei fabbricati oggetto del contratto di affitto d’azienda sia effettivamente inferiore al 50 per cento del valore complessivo dell’azienda).





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La fattispecie affrontata dalla Corte di Cassazione, Sezione III, del 17 febbraio 2020, n. 3888.

Una recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione, la n. 3888 del 17 febbraio 2020, offre un prezioso contributo in merito all’individuazione di criteri identificativi delle fattispecie dell’affitto di azienda, da un lato, e della locazione ad uso commerciale di bene immobile, dall’altro.

La vicenda da cui muove la sentenza in esame è rappresentata da un contratto d’affitto di ramo d’azienda avente ad oggetto i locali di due unità immobiliari, unitamente alle rispettive attrezzature e pertinenze, concluso in data 21 giugno 2004 tra la società “Alfa”, gestore delle strutture di un centro commerciale, e la società “Beta”, la quale aveva successivamente ceduto, sempre in affitto, la medesima azienda ad altra società, convenuta poi in giudizio[7] dalla prima a seguito della scadenza del contratto (avvenuta in data 21 giugno 2014), con conseguente richiesta di condanna dell’affittuaria a rilasciare il ramo d’azienda oltre al risarcimento dei danni.

La convenuta, costituitasi in giudizio, chiedeva, per quanto qui d’interesse, la dichiarazione di nullità e/o inefficacia e/o inopponibilità del contratto de quo, sulla base del fatto che il contratto sarebbe da qualificare come locazione commerciale (anziché quale contratto di affitto di ramo d’azienda) e, per l’effetto, il rimborso dei miglioramenti e delle addizioni apportate agli immobili ai sensi degli artt. 1592 e 1592 c.c.

Il giudice di primo grado, ritenendo sussistente un regolare contratto di affitto di ramo d’azienda, scaduto in data 21 giugno 2014, condannava la società affittuaria alla restituzione del complesso aziendale, respingendo tutte le domande di parte convenuta. In secondo grado, la Corte di Appello[8], confermava la tesi del Giudice di primo grado, ritenendo, per quanto di interesse, che il contratto in esame sia da qualificarsi quale contratto di affitto di azienda, per via del fatto che le parti hanno inteso trasferire unitariamente un complesso di beni mobili ed immobili dotato di potenzialità produttiva, ancorché l’attività non fosse iniziata al momento della conclusione del contratto[9].

Il provvedimento veniva infine impugnato dall’affittuaria innanzi alla Corte di Cassazione assumendo, tra l’altro, una erronea qualificazione del contratto.

La Suprema Corte oltre ad accogliere il ricorso della società affittuaria ha il pregio di aver delineato preliminarmente i criteri che consentono di distinguere il contratto d’affitto di azienda dal contratto di locazione commerciale di un mero immobile affermando il seguente principio di diritto: “la differenza essenziale tra locazione e affitto di azienda (o di ramo di essa) è in primo luogo nella preesistenza di una organizzazione in forma di azienda dei beni oggetto di contratto, mancando la quale non si può dire che sia stato ceduto il godimento di un’azienda o di un suo ramo”; in secondo luogo, ove si accerti che i beni, al momento del contratto, erano organizzati per l’esercizio dell’impresa già dal dante causa “occorre verificare se le parti abbiano inteso trasferire o concedere il godimento del complesso organizzato, oppure semplicemente di un bene immobile, rispetto al quale gli altri beni e servizi risultano strumentali al godimento del bene, restando poi libero l’avente causa di organizzare ex novo un’azienda propria. E ciò tenendo conto che un complesso di beni organizzato costituisce azienda se i beni sono tali da poter costituire, attraverso l’organizzazione, di cui si è detto, una azienda vera e propria, ed occorrerà dunque tener conto del fatto che, nella fattispecie, i beni ceduti, insieme al locale, erano costituiti da un massetto, un registratore ed un gabinetto, ossia da cespiti la cui cessione, di per sé, non integra un trasferimento di ramo aziendale”.

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Affitto di ramo d’azienda e locazione d’immobile: breve inquadramento civilistico e il punto della giurisprudenza di legittimità.

Come noto, l’art. 2555 c.c. definisce l’azienda come il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa e, dunque, sottolinea la strumentalità dell’azienda, intesa come referente materiale per l’esercizio dell’attività di impresa.

L’azienda e l’impresa costituiscono, pertanto, due diverse facce di una medesima medaglia, che nel linguaggio corrente individuano indifferentemente l’unità produttiva, mentre nel linguaggio giuridico vanno differenziandosi, rappresentando l’attività e l’apporto strumentale per il suo svolgimento[10]. I due concetti, dunque, si pongono in un rapporto di mezzo a fine, costituendo l’azienda l’apparato strumentale materiale (locali, macchinari, attrezzature, materie prime, merci, etc.) che l’imprenditore utilizza al fine dello svolgimento dell’attività di impresa.

Assume rilevanza fondamentale la questione se la cessione in godimento di un immobile adibito ad esercizio di un’attività di impresa commerciale integri un affitto d’azienda oppure, invece, un contratto di locazione commerciale, per i risvolti pratici nonché per disciplina applicabile che ciò implica.

In linea generale e preliminare, si dice che ricorre la fattispecie della locazione di immobile quando quest’ultimo sia stato specificamente considerato nella sua effettiva consistenza, con funzione prevalente rispetto ad altri beni che abbiano carattere accessorio e non siano collegati tra di loro da un vincolo che li unifichi ai fini produttivi. Al contrario, ricorre l’affitto di azienda o di ramo d’azienda nel caso in cui sia stata concessa in conduzione una universitas aziendale, ovverosia un’entità organica capace di vita economica propria, della quale l’immobile costituisca una mera componente, in rapporto di complementarietà ed interdipendenza con gli altri elementi.

A tale proposito, i principali orientamenti della giurisprudenza di legittimità che hanno affrontato tale tema possono essere ripercorsi, in estrema sintesi, come segue:



- la differenza tra locazione di immobile con pertinenze e affitto di azienda consiste nel fatto che, nella prima ipotesi, l’immobile concesso in godimento viene considerato specificamente, nell’economia del contratto, come l’oggetto principale della stipulazione, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri elementi, i quali (siano essi legati materialmente o meno all’immobile) assumono carattere di accessorietà e rimangono collegati all’immobile funzionalmente, in posizione di subordinazione e coordinazione, mentre nell’affitto di azienda l’immobile non viene considerato nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso di beni mobili ed immobili, legati tra di loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo, sicché l’oggetto del contratto è costituito dall’anzidetto complesso unitario (cfr. Corte Cass., sentenza n. 23851/2019 e nello stesso cfr. Corte Cass., sentenza n. 5989/2007; Corte Cass., sentenza n. 20815/2006, Corte Cass., sentenza n. 9354/2002; Corte Cass., sentenza n. 1243/2000[11]);

- nessun problema si pone, trattandosi di locazione ad uso commerciale e non di affitto di azienda, quando il locatore cede in godimento al conduttore i locali ove esercitare l’attività commerciale, e non anche altri beni strumentali per detto esercizio, giacché se è vero che la titolarità dell’azienda può essere disgiunta dalla proprietà dei beni strumentali destinati al funzionamento della stessa, è però necessario che di questi beni il titolare possa disporre in base ad un titolo idoneo che gli consenta di destinarli per sé o per altri all’esercizio dell’azienda medesima (cfr. Cass. civ., sentenza n. 13689/2001);

- è stato, altresì, correttamente osservato che non è necessario che l’azienda sia funzionante al momento del trasferimento, dato che la figura dell’affitto di azienda ricorre sia quando il complesso organizzato dei beni sia dedotto nella sua fase statica, sia quando venga dedotto in quella dinamica. Pertanto, non è rilevante che la produttività non sussista ancora, o abbia cessato di esistere per l’interruzione o la temporanea sospensione dell’esercizio dell’impresa, essendo sufficiente che detta produttività sia una conseguenza potenziale dell’insieme, prevista e voluta dalle parti (cfr. Corte Cass., sentenza n. 4700/2003; Corte Cass., sentenza n. 1640/1984);

- una fattispecie al limite tra le due figure prese in esame ricorre allorquando l’azienda esercitata è una struttura ricettiva quale un albergo. A tal proposito, si rileva che in materia è intervenuto il legislatore, con la disposizione dell’art. 1, 9° co. septies, D.L. 7.2.1985, n. 12, convertito in L. 5.4.1985, n. 118, secondo cui si ha locazione di immobile e non affitto di azienda in tutti i casi in cui l’attività alberghiera sia stata iniziata dal conduttore, che attribuisce una particolare tutela all’inizio dell’attività alberghiera da parte di quest’ultimo, mediante una presunzione iuris et de iure della natura locativa del rapporto, con la conseguenza dell’applicabilità della disciplina locatizia (art. 28, L. 27.7.1978, n. 392) e con la finalità di incentivare l’inizio dell’attività di impresa e di proteggerla nella sua fase iniziale. Ne deriva, come è stato poi affermato, a tal riguardo, dalla Corte Costituzionale con le sentenze 23.4.1986, n. 108 e 13.7.1994, n. 294, una nozione dinamica di azienda in base alla quale va assoggettato al regime vincolistico anche il rapporto relativo ad immobile attrezzato, in modo da formare, con gli elementi accessori, un complesso coordinato allo scopo produttivo di un servizio alberghiero da realizzare però in tempi successivi alla conclusione del contratto. Si ha invece affitto di azienda quando viene ceduta in godimento una più vasta ed organica entità, capace di vita economica propria, di cui l'immobile costituisca una componente, sia pure principale (cfr. Corte Cass., sentenza n. 20817/2006)[12].

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Il problema affrontato dalla Cassazione n. 3888/2020 riguardante la natura giuridica dell’azienda e la necessaria “organizzazione di beni” preesistente alla cessione in godimento al fine di distinguere il contratto di affitto d’azienda dalla locazione di un mero immobile.

In questo contesto giurisprudenziale sopra ripercorso brevemente, la sentenza della Corte di Cassazione, n. 3888 del 2020 qui commentata chiarisce quali sono i criteri identificativi delle due fattispecie in esame, ossia il contratto di affitto d’azienda ovvero il contratto di locazione di un mero immobile.

Nella definizione di cui all’art. 2555 c.c., l’elemento unificatore della pluralità dei beni è ancorato ad un’attività (l’organizzazione), la quale, se a sua volta è necessariamente qualificata in senso finalistico (l’impresa), possiede anche una dimensione oggettiva. In altre parole, l’attività, come tale, è certamente un’espressione del soggetto, che trascende la categoria dei beni giuridici e che imprime una certa organizzazione all’esercizio dell’attività economica, anche se non esclude l’azienda come oggetto di diritti.

Tale considerazione, fatta propria dalla sentenza in esame, è peraltro in linea con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità sul punto, secondo il quale “E’ necessario, per chi debba misurarsi con la disciplina vigente dell’azienda, riconoscere che l’art. 2555 c.c. esprime una valutazione dell’azienda che, senza cancellare il suo collegamento genetico (organizzativo) e finalistico con l’attività d’impresa, ne sancisce una considerazione oggettivata (di “cosa”, oltre che di strumento di attività), costituente la premessa alla possibilità che essa diventi oggetto di negozi giuridici e di diritti” (Cass. civ., Sez. Un., n. 5087/2014).

Impostazione che, aderendo – come noto – alla visione dell’azienda intesa come universitas, è stata pure ripresa successivamente dalla Corte di Cassazione (cfr. Corte Cass., sentenza n. 13319 del 2015) che riprendendo il precedente delle Sezioni Unite, osserva come “ciò che sembra decisivo è dunque proprio l’oggettività dell’azienda, considerata unitariamente quale oggetto di diritti”.

Alla luce di quanto precisato, la sentenza che ci occupa giunge ad una premessa necessaria per affrontare la distinzione tra affitto d’azienda e locazione di immobile, vale a dire che caratteristica dell’azienda è che si tratti di un complesso unitario di beni, tenuto insieme dall’organizzazione che di questi beni ha fatto l’imprenditore in vista dell’esercizio dell’impresa. E che, soprattutto, nella circolazione dell’azienda non viene meno l’unitarietà del complesso dei beni che la compongono, unitarietà impressa dalla organizzazione, che deve esistere al momento della concessione in godimento a terzi. Infatti, “un contratto che conceda il godimento dell’azienda a terzi ha ad oggetto, pare ovvio, una azienda che preesiste, ossia ha ad oggetto un complesso di beni organizzati dal cedente e, come tali (organizzazione compresa dunque), concessi in godimento al cessionario[13].

Non sembra, pertanto, compatibile con l’affitto di azienda la concessione in godimento di beni che sarà poi l’avente causa ad organizzare in vista dell’esercizio dell’impresa, con la conseguenza che nell’affitto di azienda elemento indefettibile è che venga ceduto il godimento altresì della organizzazione. Se oggetto della cessione è, invece, un complesso di beni, ma niente affatto organizzati ai fini dell’impresa, non potrà evidentemente ritenersi che si sta cedendo un’azienda, che invece presuppone specificatamente detto elemento.

Tale soluzione cui giunge la sentenza in esame oltre che condivisibile è coerente, tra l’altro, con il precedente giurisprudenziale succitato (Corte Cass., sentenza n. 4700 del 2003), secondo il quale non è necessario che l’azienda sia funzionante al momento del trasferimento, dal momento che la figura dell’affitto di azienda ricorrerebbe sia quando il complesso organizzato di beni sia dedotto nella sua fase statica, sia quando sia dedotto in quella dinamica. Infatti, dire che i beni devono essere organizzati ai fini dell’impresa non implica necessariamente che debbano essere produttivi al momento della cessione o dell’affitto, in quanto il fatto che la produttività dei beni non sia attuale ma solo potenziale non significa fare a meno del requisito dell’organizzazione, ossia della necessità che quei beni siano (al momento della cessione o dell’affitto) organizzati verso un fine produttivo, che può anche iniziare successivamente ma che, tuttavia, deve dipendere dall’organizzazione impressa dal cedente.

In altri termini, usando le parole della Suprema Corte, risulta evidente che l’elemento della organizzazione è dunque centrale nella definizione dell’azienda, e di conseguenza nella ricerca di un criterio per distinguere tra affitto di azienda e locazione di singoli beni: è proprio l’elemento della organizzazione impressa ai beni che consente di considerare azienda anche il complesso di beni appartenenti a soggetti diversi (come nel caso in cui l’imprenditore si serva sia di beni propri, che di beni avuti in godimento da terzi), nonché aventi una destinazione non unitaria, ossia diversa da bene a bene, purché si tratti di destinazioni convergenti nella finalità di esercitare l’impresa[14].

Da ciò deriva che un elemento discretivo decisivo è la preesistenza dell’elemento organizzativo sui beni oggetto del contratto, nel senso che qualora invece l’impresa sia iniziata dall’avente causa, o sia costui a dare per la prima volta una organizzazione ai beni cedutigli in godimento, non potrà ovviamente parlarsi di affitto di azienda, vicenda che presuppone la preesistenza di quest’ultima al contratto; viceversa non potrà parlarsi di affitto d’azienda o di ramo d’azienda, bensì di locazione. Si deve precisare che la sentenza in commento non prende posizione circa la tesi secondo cui l’azienda in sé consiste in nient’altro che nella organizzazione, ossia in un bene immateriale, distinto dai beni materiali che formano il complesso aziendale e che, per taluna dottrina, sono intesi addirittura come pertinenze del bene principale costituito dalla organizzazione[15].

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L’avviamento e la rilevanza dell’immobile rispetto agli altri beni oggetto del contratto di affitto di azienda quali indici della preesistenza di un’organizzazione ai fini dell’esercizio dell’impresa.

Precisato che deve sempre preesistere al contratto d’affitto un elemento di organizzazione dei beni aziendali imputabile al dante causa, è necessario, a questo punto, comprendere quando preesiste una organizzazione tale da unificare i beni in un’azienda e quando invece tale organizzazione difetti. Si tratta di un accertamento in fatto rimesso al giudice di merito, ma che va condotto sulla base di regole giuridiche, il cui corretto uso è sindacabile in sede di legittimità.

A tal riguardo, secondo la Corte di Cassazione con la sentenza qui commentata, un primo indice identificativo è considerato l’elemento dell’avviamento, ossia quella qualità della azienda definita come la capacità di produrre profitto, ottenendo risultati economici diversi (e, di regola, maggiori) di quelli raggiungibili attraverso l’utilizzazione isolata dei singoli elementi che la compongono[16].

Infatti, il legislatore, nel disciplinare l’affitto di azienda, richiama espressamente le norme in materia di usufrutto di azienda (art. 2561 c.c.), consentendo così, non solo all’affittuario di trarre gli utili derivanti dallo stato in cui si trova il complesso aziendale, ma anche all’affittante di ottenere la retrocessione di un complesso integro nella sua funzionalità ed organizzazione (permettendo a quest’ultimo di proseguire nell’attività). Circostanza che, dunque, implica la rilevanza dell’elemento dell’avviamento.

In secondo luogo, occorrerà considerare il rilievo e l’importanza oggettivamente rivestiti dall’immobile rispetto agli altri beni o servizi oggetto del contratto. Infatti, se l’immobile oggetto di contratto assume una posizione di assoluta ed autonoma centralità nell’economia contrattuale, rispetto alle pertinenze e/o ai beni e servizi connessi, il contratto dovrà qualificarsi come locazione di immobile, in quanto gli altri elementi connessi al bene assumono carattere di accessorietà, rimanendo ad esso collegati sul piano funzionale in una posizione di coordinazione-subordinazione; mentre, nell’affitto di azienda, lo stesso immobile deve essere considerato non nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso dei beni (mobili ed immobili) legati tra loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo, così che oggetto del contratto risulta proprio il complesso produttivo unitariamente considerato, secondo la definizione normativa di cui all'art. 2555 c.c.

È dunque perfettamente compatibile con la locazione la circostanza che, oltre al godimento dell’immobile, il contratto abbia ad oggetto prestazioni che sono accessorie, come nella fattispecie esaminata dalla Suprema Corte, in cui il godimento del bene si associava all’uso dell’area comune del centro commerciale, alla possibilità di usufruire delle utenze e servizi del centro commerciale stesso, al fatto che l’unità immobiliare fosse situata all’interno di un centro commerciale[17].

Conclusivamente, alla luce dell’iter logico-giuridico della sentenza qui in commento, è lapalissiano che la valutazione che i giudici di merito sono tenuti a compiere, nell’individuazione tra locazione e affitto di azienda (o di ramo di essa), consiste in primo luogo nella preesistenza di una organizzazione in forma di azienda dei beni oggetto di contratto, mancando la quale non si può dire che sia stato ceduto il godimento di un’azienda o di un suo ramo; in secondo luogo, ove si accerti che i beni erano al momento del contratto organizzati per l’esercizio dell’impresa già dal dante causa, occorre verificare se le parti abbiano inteso trasferire o concedere il godimento del complesso organizzato, oppure semplicemente di un bene immobile in relazione al quale gli altri beni e servizi risultano solamente strumentali al godimento del bene stesso, restando poi libero l’avente causa di organizzare ex novo un’azienda propria.

Pubblicazione su La Rivista delle Operazioni Straordinarie n. 7/2020 edita da Euroconference.

[1] ai sensi dell'art. 3, comma 2, n. 1 del D.P.R. n. 633 del 1972. [2] cfr. art. 5, comma 1, lett. a-bis) della Tariffa Parte I del d.p.r. n. 131/1986. [3] Ai sensi del quale “Le disposizioni in materia di imposte indirette previste per la locazione di fabbricati si applicano, se meno favorevoli, anche per l'affitto di aziende il cui valore complessivo sia costituito, per più del 50 per cento, dal valore normale di fabbricati, determinato ai sensi dell'articolo 14 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”. [4] cfr. art. 35, comma 10-quater, del D.L. n. 223/2006. [5] cfr. commento all’art. 10 d.p.r. n. 633/1972 in R. Portale, Imposta sul valore aggiunto, Gruppo 24 ore, quattordicesima edizione. [6] nell’ipotesi in cui la ‘concedente’ sia una società di persone commerciale, società di capitali, imprenditore individuale che affitta una fra più aziende [7] con ricorso ex art. 447 bis c.p.c. [8] La sentenza di primo grado veniva appellata sulla base dei seguenti motivi d’impugnazione: innanzitutto, il Giudice di primo grado avrebbe ritenuto valido il contratto in esame in difetto della prescritta forma scritta e nonostante fosse stato sostituito da altro contratto totalmente diverso, stipulato per atto pubblico il 3 - 5 - agosto 2004, da considerarsi come il contratto definitivo cui fare riferimento; in secondo luogo, il Giudice di prime cure avrebbe pure erroneamente ignorato l'anomalia della doppia stipulazione, ammettendo la contestuale presenza di due atti volti a regolamentare il rapporto, quando invece il complessivo assetto era rivolto a massimizzare il profitto eludendo la normativa fiscale e lavoristica; infine, trattandosi di locazione e non di affitto d'azienda, il Tribunale avrebbe totalmente obliterato la circostanza per cui la disdetta doveva ritenersi inefficace, con conseguente proroga del rapporto per ulteriori 10 anni. [9] In particolare, secondo il giudice di secondo grado, la potenzialità produttiva del complesso non sarebbe esclusa né dal fatto che l’attività non fosse ancora iniziata al momento della cessione, né dal fatto che l’immobile si trovasse ancora al “grezzo”, e ciò in quanto il locale si trovava all’interno di un centro commerciale e che, unitamente ad esso, sarebbe stato ceduto anche il godimento o lo sfruttamento commerciale di altri beni, come le attrezzature indicate nell’elenco allegato al contratto de quo, il know how, la licenza commerciale etc [10] Bonfante, Cottino, L'imprenditore, in Tratt. Cottino, I, Padova, 2001, p. 608; v. anche Campobasso, Diritto commerciale, I, 4a ed., Torino, 2003, 135. [11] Secondo la Corte di Cassazione “se l’immobile concesso in godimento viene considerato specificamente, nell’economia del contratto, come l’oggetto principale della stipulazione, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri elementi, i quali assumono carattere di accessorietà e rimangono collegati all’immobile funzionalmente, in posizione di subordinazione e coordinazione, si dovrà parlare di locazione. Nell’affitto di azienda, invece, l’immobile non viene considerato nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso di beni mobili ed immobili, legati tra di loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo, sicché l’oggetto del contratto è costituito dall’anzidetto complesso unitario” (Corte Cassazione, sentenza n. 1243/2000). [12] Sempre in tale linea interpretativa, la Suprema Corte ha pure distinto il contratto di affitto d’azienda para alberghiera (campeggio) da quello di locazione di immobile adibito a campeggio, per il fatto che, mentre in quest'ultima ipotesi è dedotto in contratto un terreno destinato all'attendamento ed al parcheggio delle roulottes, corredato delle sole attrezzature indispensabili per tale destinazione, nel primo caso invece oggetto del contratto è un complesso organico preesistente alla pattuizione delle parti, del quale, oltre a detto immobile, siano elementi integranti una serie di servizi, di attrezzature e di impianti organizzati per l'esercizio di una impresa turistica ricettiva già funzionante con una sua precisa denominazione, e dotata delle relative scritture contabili (Cass. civ. 4044/1999). [13] Cfr. Cass. civ., Sez. III, 17 febbraio 2020, n. 3888. [14] Cfr. Corte Cassazione, sentenza n. 3888/2020. [15] cfr. (Ascarelli, Appunti di diritto commerciale, Roma, 1936, p. 123; Colombo, L'azienda, in Tratt. Galgano, III, Padova, 1979, p. 4; Ferrara, Trattato di diritto civile italiano, I, Roma, 1921, p. 811; Jaeger, Denozza, Appunti di diritto commerciale, Milano, 2000, 82; Tedeschi, Le disposizioni generali sull’azienda, in Tratt. Rescigno, 18, Torino, 1983, 12; Auletta, Azienda, in EG, IV, Roma, 1988, p. 3). Infatti, la Suprema Corte specifica, a tal riguardo, che “Non si vuole cioè dire che l’organizzazione dei beni singoli in un’unica azienda costituisca a sua volta un bene oggetto di diritti e di atti di disposizione che lo riguardino singolarmente. Non è necessario difendere questa ricostruzione dell’azienda per sostenere le conclusioni che si vogliono qui assumere. L’elemento della organizzazione è però, e comunque, centrale nella definizione dell’azienda, e di conseguenza nella ricerca di un criterio per distinguere tra affitto di azienda e locazione di singoli beni. L’elemento della organizzazione intanto è ciò che consente di affermare la natura di universitas dell’azienda, come prevista altresì dall’art. 670 c.p.c. norma che consente il sequestro dell’azienda o di altre universalità di beni, cosi facendo intendere che l’azienda è pure essa una universalità. Ma nello stesso tempo consente questo risultato (l’azienda è una universalità) senza bisogno di pretendere gli antichi requisiti della universitas rerum che ancora oggi sono richiesti per le universalità di beni mobili” (cfr. Cass. civ., Sez. III, 17 febbraio 2020, n. 3888). [16] Cfr. Sasso, Avviamento d'azienda, in Digesto comm., Torino, 58. [17] A tal proposito, del tutto correttamente, la sentenza in commento sottolinea quanto segue: “E’ evidente infatti che la mera collocazione del locale nel centro commerciale nulla dice quanto al tipo di contratto che lo riguarda, cosi come non è presuntiva di avviamento aziendale, ossia di avviamento che non sia riferibile al conduttore, alla sua iniziativa commerciale, ma piuttosto alla collocazione nel centro commerciale, e all'avviamento che deriva dalla contiguità con gli altri locali. Questa corte infatti ha avuto modo di osservare che l'inserimento di un locale nel centro commerciale non significa che l’avviamento sia frutto della mera collocazione del negozio, che trae profitto solo dalla vicinanza con altri esercizi, giacchè ciò che rileva è la capacità del singolo commerciante di attrarre la clientela, cosi che "l'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale deve essere riconosciuta, laddove ricorrano le condizioni di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 34 anche in relazione alla locazione di immobili interni o complementari a centri commerciali, non essendo applicabile in via analogica l’art. 35 Legge citata, ma dovendo piuttosto verificarsi la idoneità degli stessi a produrre un avviamento "proprio", tenendo altresì conto che la funzione attrattiva della clientela esercitata dai centri commerciali non rende possibile distinguere, in genere, tra avviamento "proprio" del centro e quello di ciascuna attività in esso svolta, in ragione della reciproca sinergia esercitata dalle singole attività”(Cass. 18748/ 2016)” (Cass. civ., Sez. III, 17 febbraio 2020, n. 3888).

 
 
 

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