Elvio Fassone, Fine pena: ora. Ovverosia, un supplemento d'anima.
- albertonegrivr
- 1 gen 2021
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 2 gen 2021
B̳e̳b̳e̳l̳p̳l̳a̳t̳z̳
Letture.
Questo non è il solito libro buonista sulla pena e sulla (sacrosanta) funzione rieducativa della stessa. E non è un romanzo di invenzione, ma una storia vera. Una corrispondenza durata 26 anni tra un ergastolano e il suo giudice. Nemmeno tra due amanti è pensabile uno scambio di lettere così lungo.
«Questa vicenda ha un particolare che credo faccia la differenza dalle altre. All’inizio della storia c’è qualcosa che l’ha messa in moto, qualcuno che ha pronunciato la condanna di Salvatore all’ergastolo, che ha spalancato i cancelli destinati a rinchiuderlo per sempre. Ebbene, l’uomo che ha segnato la sua vita e poi, in qualche misura, lo ha accompagnato per ventisei anni, sono io».
Nel 1985 a Torino si celebra un maxi processo alla mafia catanese; il processo dura quasi due anni, tra i condannati all'ergastolo Salvatore, uno dei capi a dispetto dei suoi 28 anni, con il quale il Presidente della Corte d'Assise – autore di questo libro, edito da Sellerio – ha stabilito un rapporto di reciproco rispetto e quasi - la parola non sembri inappropriata - di fiducia. Il giorno dopo la sentenza il giudice gli scrive d'impulso e gli manda un libro. Ripensa a quei due anni, risente la voce di Salvatore che gli ricorda: "se io nascevo dove è nato suo figlio adesso era lui nella gabbia". Non è pentimento per la condanna inflitta, né solidarietà, ma un gesto di umanità per non abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere il resto della sua vita. La legge è stata applicata, ma questo non impedisce al giudice di interrogarsi sul senso della pena. E non astrattamente, ma nel colloquio continuo con un condannato. Ventisei anni trascorsi da Salvatore tra la voglia di emanciparsi attraverso lo studio, i corsi, il lavoro in carcere e momenti di sconforto, soprattutto quando le nuove norme rendono il carcere durissimo con il regime del 41 bis.
Fermiamoci proprio su quella frase di Salvatore: «Se io nascevo dove è nato suo figlio, adesso era lui nella gabbia, e magari io facevo l’avvocato». In queste parole l’autore del libro ha sentito come il desiderio di una figliolanza spirituale. E così l’ha intesa. Ma per comprendere è necessario ripercorrere i fotogrammi di questa vicenda. Innanzitutto la decisione del giudice, all’inizio del processo, di rendersi disponibile per colloqui post-udienza con gli imputati, per parlare e, nel caso, affrontare problemi di ordine pratico, alla presenza degli avvocati, in modo che tutto fosse alla luce del sole. Lo scopo? Attenuare il clima di guerra che si stava vivendo. Era un modo per non mettersi in trincea contro di loro.
Durante uno di questi colloqui, Salvatore disse quelle parole sulla “lotteria della vita”, come qualcuno la potrebbe chiamare. E poi arrivò la risposta alla prima lettera del magistrato: «Io so che l’ergastolo nel suo cuore non me lo voleva dare, ma ha seguito la legge. Per questo io farò quello che lei mi consiglia». Ecco ancora la figliolanza spirituale. «Se lui si rammaricava di non essere stato mio figlio, io dovevo fare il possibile per essere suo padre». Fin dalla prima lettera il messaggio che emerge è: tu sei al di là dell’abisso, mi hai buttato la corda, io la tengo, tu aggrappati e cammina. Io ti aspetto. Questo è avvenuto in trent’anni. Una sorta di tacito patto: «Tu resisterai: io ti accompagnerò». Ma anche prima, durante il processo. E questo significa seguire le cose con un supplemento d’anima.

Durante uno dei primi colloqui, Salvatore richiese un permesso per andare a trovare la mamma ammalata. Non solo, voleva presentarsi senza manette e senza guardie. Il giudice lo concesse. E lo ricorda bene quel giorno, il giudice. Si sono guardati a lungo negli occhi. Anche l’uomo più razionale sa che ci sono delle forme di comunicazione che non passano attraverso le parole. In quel lungo sguardo, ognuno chiedeva all’altro di uscire dal proprio ruolo: io, se mi fossi attenuto all’ordinamento penitenziario, avrei dovuto rifiutarmi di concedere il permesso, e lui d’altro canto poteva approfittarne per scappare. Era una richiesta d’onore per entrambi.
Il libro è una bellissima storia di speranza, di quel «lievito della speranza», come scrive l’autore, che è ciò che ci permette di vivere. Anche nella situazione più disperata la speranza è fidarsi che le cose possano evolvere positivamente. Perché questo avvenga abbiamo bisogno di un altro, anzi dell’Altro con la A maiuscola, per tutti quelli che hanno il dono della fede, che stia con noi, che ci aiuti.

Elvio Fassone (Torino, 1938) è stato magistrato e componente del Consiglio superiore della magistratura. Senatore della Repubblica. E' autore di numerose pubblicazioni in materia penitenziaria e su temi politico-istituzionali (Piccola grammatica della grande crisi, 2009; Una costituzione amica, 2012).
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